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La transizione digitale è in corso: non c’è scelta!

La transizione digitale è in corso:
non c’è scelta!

Fino allo scorso anno il tema della transizione digitale non era mai stato oggetto di una riflessione organica all’interno della rete del CNCA, ma, con poche eccezioni, neppure nelle organizzazioni aderenti alla Federazione e più estesamente nel terzo settore. Ciò non ha significato l’assenza nel tempo di un impatto significativo delle tecnologie informatiche nelle organizzazioni che operano nel sociale. Quanto è mancato sono invece una visione diffusa e strategie convergenti che consentissero di adottare strumenti digitali innovativi per la gestione, ma soprattutto per l’accompagnamento delle persone di cui ci occupiamo, in modo consapevole e coerente con le finalità di inclusione sociale, costruzione di comunità, promozione di relazioni proprie del nostro operare.

La pandemia, i lockdown hanno prodotto un’accelerazione di questo cambiamento, l’hanno imposto. Da subito però ci siamo resi conto che non eravamo preparati, anche se non sono mancate soluzioni creative e virtuose che hanno permesso, con le possibilità del digitale, di razionalizzare alcuni processi (con apprezzabili risparmi di tempo e risorse). Abbiamo scoperto di poter superare la distanza fisica, andando oltre, anche inventando nuove forme di comunicazione, modi inediti di ascoltare e ascoltarci, avvicinandoci alle periferie più dolorose delle persone che accompagniamo. La durezza delle fatiche e delle vite compromesse può essere intenerita e sopportata grazie alla prossimità in presenza o no!  Anche se non è stato facile o naturale lavorare con il digitale: il rischio è stato spesso quello di limitarsi a trasferire approcci consolidati del lavoro educativo, che oggi definiamo in presenza, nella dimensione dell’operare attraverso dispositivi tecnologici.

Ma se ci sono già positive e significative esperienze, pur a macchia di leopardo, se per molti operatori, per numerose organizzazioni il digitale è già opportunità e opportunità declinata in modo coerente, se percorsi più consapevoli e articolati o soluzioni costrette dalla pandemia hanno permesso di generare, moltiplicare nuova prossimità, oggi c’è la necessità di approfondire, elaborare, condividere tutto questo. Il concetto, infatti, secondo il quale bisogna rendere le nostre organizzazioni più innovative e sostenibili, sfruttando le nuove tecnologie, non è solo un pensiero diffuso, ma un’esigenza concreta. Come però aprirsi effettivamente e criticamente al digitale, quale “architettura ibrida” (digitale-non digitale) andrà messa in campo nel nostro operare, come prepararsi e preparare a questa evoluzione? Sono solo alcune delle domande che emergono e che richiedono risposte non dettate da urgenza e condizionamenti esterni.

Certo, per esempio, siamo spesso approdati a un utilizzo disinvolto di strumenti tecnologici, di relazioni nella rete. Disinvolto, in positivo, per una maggior consuetudine con le tecnologie, ma disinvolto anche per una banalizzazione del ricorso non pensato alle relazioni a distanza, alla virtualità. La competenza dell’operatore sociale è ancora spesso inadeguata rispetto alle possibilità offerte dal contesto digitale, e questo comporta una difficoltà nella visione rispetto agli scenari possibili che toccano la relazione con la persona, lo sviluppo di gruppi, reti e comunità.

Confrontandoci con operatori e organizzazioni nel corso di questi mesi abbiamo potuto cogliere l’atteggiamento ambivalente che convive nella nostra rete, tra opportunità, resistenze e preoccupazioni.

Le resistenze rappresentano certo il nodo più complesso da affrontare, ma devono essere considerate consapevolmente e con attenzione se si vogliono costruire percorsi condivisi e coerenti. Altrimenti rischiano di costituire un ostacolo insormontabile a un’evoluzione equilibrata e generativa del sociale. Derivano da pregiudizio, da assunti “ideologici”, da scarsa confidenza con la materia, da ignoranza (nel senso etimologico del termine), e pure da paura del cambiamento (che produce incertezza in contesti già affaticati e complessi), da un certo “conservatorismo” del sociale, che talora si sente mondo a parte (orgogliosamente a parte!).

Rilevanti sono poi le preoccupazioni, più fondate e razionali, queste sì legate a criticità che attengono al senso stesso del lavoro sociale, al mandato delle nostre organizzazioni, a un orizzonte di equità e inclusione. Ragioni etiche, innanzitutto, legate allo sfruttamento dei dati, al poter essere inconsapevolmente controllati, ai grandi monopoli del digitale… Ancora, l’abdicare a Big data e intelligenza artificiale, mettere l’algoritmo al posto del pensiero, della relazione, della responsabilità di valutare, scegliere, decidere. Poi le “impari” opportunità di accesso di una transizione digitale senza regole che i più poveri, i più vulnerabili subiscono, e che, come i dati evidenziano, oggi finisce ancora per generare o accentuare disuguaglianze. Infine, il rischio che le tecnologie, utilizzate senza criterio o per sola convenienza, portino a scardinare o compromettere la centralità della relazione, sostituendo la prossimità e la condivisione.

In conclusione, è necessario, doveroso interrogarci sulle complesse implicazioni derivanti dal ricorso a soluzioni di Information and communications technology nel lavoro sociale: lo dobbiamo fare in modo esigente, ma ricercando soluzioni, alleanze, percorsi capaci di concretezza. Di transizione digitale in certi contesti (come in parte in quello educativo e sociale) si parla ancora come se fosse un’opzione da scegliere e di là da venire. Si deve essere consapevoli del fatto che la transizione digitale c’è comunque, è in corso. Non attrezzarsi a questa sfida significa restare ancora indietro come sistema, come singole organizzazioni e come profili professionali (già in sé deboli) e, soprattutto, penalizzare anche le persone con cui lavoriamo che finirebbero per soffrire l’ennesima esclusione senza appello. Non ha senso dunque chiederci se vogliamo la transizione digitale, siamo fuori tempo massimo, ma come la vogliamo e come la possiamo condizionare.

Michelangelo Marchesi, CNCA

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